Empatia e Relazioni di Aiuto - un approccio olistico
Questo articolo di Arshad Moscogiuri è stato pubblicato sul sito e nella newsletter di Watsu Italia nel 2014
La qualità empatica, cioè la capacità dell’essere umano di comprendere le emozioni dell’altro senza per questo doverne condividere lo stato d’animo o i giudizi, sta cambiando l’approccio contemporaneo alle cosiddette relazioni di aiuto e traccia nuove frontiere per la civiltà del Sapiens.
Le porte scientifiche sull’empatia si sono spalancate grazie alla scoperta, tutta italiana, dei neuroni-specchio.
Sono neuroni che si attivano alla percezione delle emozioni dell’altro. Interpretano i segnali, le espressioni, gli sguardi, quanto non è visibile e tangibile dell’altra persona e li codificano istantaneamente, a livello non razionale. Li traducono in percezioni viscerali, motorie, emozionali; li specchiano, è il caso di dire, dentro l’individuo. L’orientamento delle relazioni umane diventa così un fenomeno pre-verbale, pre-linguistico, pre-analitico, si fa bio-sociale. I neuroni-specchio del Sapiens, e non solo i suoi, sono biologicamente preposti ai rapporti tra gli individui.
La scoperta del team parmense guidato dal professor Rizzolatti è uno dei preziosi tesori della scienza contemporanea. Le sue implicazioni sono notevoli e numerose, stanno facendo studiare e discutere centinaia di ricercatori in tutto il mondo e includono psicologia, sociologia, linguaggio e la stessa evoluzione individuale.Il neurone-specchio è la rivoluzione copernicana della neurologia.
Dimostra che ogni individuo è naturalmente in grado di agire con partecipazione empatica nei confronti di un altro. Almeno, ogni individuo i cui circuiti neuronali dell’empatia funzionino in modo sano.
Chi è che non prova empatia? I torturatori, i criminali nazisti, i trader della finanza? Noi stessi quando ci comportiamo male con gli altri?
L’empatia è sì una potenzialità naturale, ma il grado di empatia che percepiamo dipende molto anche da noi, dalla storia individuale e sociale, dai nostri circuiti neuronali e da come questi si sono formati nella nostra vita.
Concetti quali malvagità e cattiveria possono così essere guardati sotto una luce diversa, come suggerisce un interessante lavoro dello psicologo inglese Simon Baron-Cohen. Già distintosi per i suoi studi sull’autismo e per la differenza percettiva tra cervello maschile (più orientato al funzionamento delle cose e dei sistemi) e quello femminile (più propenso all’empatia), Baron-Cohen individua diversi gradi di empatia: da un massimo di livello 6 fino a zero, negativo e positivo, dove le reazioni nei confronti dell’altro sono profondamente distorte.
Patologie a parte, anche stati temporanei come la depressione, l’affaticamento, lo stress e l’alcolismo possono abbassare sensibilmente il livello di empatia. Inoltre, in ogni singolo individuo la curva empatica ha alti e bassi, oscilla con il nostro stato d’animo e la nostra consapevolezza.
L’empatia, per giunta, ha una proprietà riflessiva: chi ha un’immagine di sé che non corrisponde a come viene visto dagli altri presenta un basso grado di empatia allo stesso modo di chi non è in grado di percepire l’altro. In sostanza, la percezione dell’altro non dovrebbe prescindere dalla percezione di sé: dove questo accade, dà luogo a proiezioni ingombranti.
Quando siamo aperti a sentire il prossimo e, nel contempo, aperti a che il prossimo possa sentirci, ci rendiamo conto di un fenomeno che stava già accadendo a nostra insaputa: siamo in grado di intuire, se non addirittura comprendere, quello che l’altro sente. Infatti, che ne siamo consapevoli o no, nel nostro sistema si verifica un riconoscimento dello stato emotivo dell’altro. Non avviene a livello mentale, bensì a livello biologico. Non è uno sforzo di tipo intellettuale, è un’abilità che fa realmente parte del nostro corredo naturale.
Questo non significa che l'empatia sia un dono bio-deterministico che ci salva o ci condanna a priori, è comunque una responsabilità individuale. Non ci si può forzare all’ascolto empatico dell’altro, non ci si può arrivare per sforzo intellettuale. Ci si arriva però attraverso l’educazione all’ascolto di sé, attraverso la scoperta degli spazi di non pensiero, aprendo la percezione interiore e, fatalmente, operando dei decondizionamenti.
Viceversa, ogni sforzo empatico sarà un’attitudine intellettuale.
In alcuni contesti, l’empatia intellettuale è preziosa.
L’empatia medica, che ha un approccio intellettuale, ha riscontrato miglioramenti nelle risposte dei pazienti; l’ammalato si sente ascoltato, più soddisfatto.
Anche secondo alcuni canoni relativi alle scienze umane l’empatia è lo sforzo intellettuale di comprendere l’altro, escludendo giudizi ed emozioni personali, affettività e moralità.
L’empatia intellettuale ha tutte le ragioni di esistere per la psichiatria, che si occupa di pazienti con patologie e gravi disagi mentali.
Sebbene anche nella psicologia si sia chiarito che questo tipo di approccio è molto proficuo per il paziente, l’interpretazione fredda e intellettuale dell’intermediario nei confronti del soggetto può lasciare alcuni dubbi.Non basta far ricorso a delle nozioni e a degli schemi di riferimento appresi attraverso lo studio per comprendere l’essere umano, bisogna saper andare oltre l’intelletto e guardare contemporaneamente anche dentro di sé.
E come la mettiamo con le relazioni di aiuto rivolte a persone sane? Che ruolo hanno gli intermediari se tutti sono naturalmente dotati di capacità empatiche?
Quando l’approccio empatico di tipo intellettuale concerne le sedicenti relazioni di aiuto, con particolare riferimento al counseling e discipline correlate, questo è del tutto fuori luogo. Porsi soltanto intellettualmente in una situazione empatica relega in realtà l’intermediario in una condizione di minore percezione, e dunque consapevolezza, dell’altro. Se con l’intelletto arriviamo a comprendere parzialmente il corpo e la mente, pur se ancora scissi dal resto dell’essere, non potremo comprendere, cioè abbracciare, anche l’intuito. Fatto sta che le relazioni di aiuto come il counseling hanno quale fine dell’utilizzo dell’empatia proprio l’apertura di spazi di intuito (insight) nel cliente. Se colui che aiuta si ferma a livello intellettuale mentre l’aiutato si spinge oltre, fino a quello intuitivo, cosa sta accadendo? Chi aiuta chi?
Al fine di permettere una neutralità che favorisca l’esposizione del soggetto, il terapista cerca di essere conscio del proprio transfert e, allo stesso tempo, di non essere coinvolto sentimentalmente, in senso negativo o positivo, dalla relazione di aiuto.
In questo modo, però, sia l’ascolto che l’esposizione rischiano di rimanere a un livello più che altro intellettuale. All’emergere delle proprie sensazioni emotive, il terapista opera uno sforzo di distacco e disidentificazione. Ma la disidentificazione non è uno sforzo, è una suprema realizzazione del sé e questo è un limite intrinseco, perché il facilitatore, più che disidentificarsi, censura la sua parte istintuale, si scinde da questa per consentire al soggetto di oggettivizzare la propria. Ben che vada, le pulsioni del paziente arriveranno a livello dell’intelletto, cioè allo stesso livello dove le riceve il terapista. Forse è per questo che la maggior parte delle terapie psicanalitiche sembra non giungere mai a un compimento: la risoluzione dei conflitti, cioè l’unità dell’individuo, non arriverà intellettualmente, ma oltre questo specifico strumento. L’intelletto pone problemi e sceglie strategie. L’intuito, che comprende istinto e intelletto, offre le soluzioni. Restando a livello dello sforzo intellettuale, l’individuo cosiddetto normale non andrà da nessuna parte, girerà in tondo. Potrà avere sicuramente benefici in caso di patologie psichiatriche, ma non avrà nessuna trasformazione radicale, se è un individuo sano che cerca di evolversi.
Si può obiettare che l’empatia intellettuale sia indispensabile per gestire i fenomeni di transfert del paziente sul counselor o terapista.
Sulla gestione del transfert si sono tuttavia dispiegate diverse scuole di pensiero, che hanno provato ad andare oltre l’attitudine empatica intellettuale nella relazione di aiuto.
Questo implica approcciarsi al cliente/paziente, o meglio al soggetto, mediante un ascolto non valutativo, in modo non invasivo, attraverso la qualità empatica naturale che ci permette di comprendere l’altro, di vestire i suoi panni. Senza bisogno di sforzo intellettuale.
In particolare, la relazione empatica di aiuto si è rivelata essere condizione molto favorevole all’insorgenza di insight nel soggetto.
Per mezzo di una presenza non giudicante all’ascolto, si è notato che i pazienti accedono più facilmente ad autocomprensioni immediate, vere e proprie intuizioni su di sé. Sono state chiamate insight, che letteralmente significa “vista interiore”. In India, da millenni, c’è un termine che significa esattamente vista interiore, ed è Vipassana. Vipassana è l’essenza nuda della meditazione, chiudere gli occhi e guardare dentro: insight.
Perché attraverso l’ascolto empatico l’insight è facilitato?
Senza accorgersene, semplicemente cercando la presenza non analitica, affidandosi alla qualità empatica naturale, chi ascolta molla un po’ la presa dell’intelletto. Apre di più la porta alla propria unità; superando la mera attività raziocinante stringe meno il primo chakra, è un po’ più rilassato, non si sforza né trattiene. Questo, per magica empatia, specchia le stesse possibilità nell’altro, che aumenta la percezione e l’accesso al proprio intuito.
Tutto qui. Si tratta di esserne consapevoli: conoscere e sperimentare gli spazi non-analitici della mente, aprirsi all’esplorazione interiore. Il punto centrale sta in ciò che chiamiamo meditazione, presenza, consapevolezza.
Questo dovrebbe essere il fulcro delle relazioni di aiuto, l’essenza stessa della presenza empatica. Trattenendo la relazione di aiuto nei confini dell’intelletto, non si accede facilmente all’intuito. Non trattenendola nell’intelletto, si accede più facilmente all’intuito.
Ma cosa succede se, oltre a non trattenere la relazione nell’intelletto, la si lascia libera di continuare a scorrere dentro di sé?Quando portiamo la relazione solo dentro l’intelletto, è come se la portassimo al cuore in teoria, ma lo tenessimo chiuso in pratica. È lo sforzo empatico.
Non chiudendo il cuore, si aprono spazi diversi. È la partecipazione empatica.
Se invece di non chiuderlo il cuore lo apriamo consapevolmente, le possibilità di relazione, di qualsiasi relazione ivi compresa quella di aiuto, si moltiplicano, finalmente libere di fluire.
A questo punto accade una cosa singolare: non c’è nessuno che di fatto aiuta l’altro. Lo stesso aprirsi a dimensioni interiori più vaste e unitarie offre a entrambi gli interessati insight e comprensioni. Come i neuroni specchiano per uno, specchiano per l’altro, e ora stanno specchiando attraverso una porta non socchiusa, non aperta, ma intenzionalmente spalancata. Dove l’intelletto non è ostacolo o confine, ma ponte. È un fenomeno energetico, non più una relazione di aiuto. Potrà nascere come tale, ma si evolve diversamente.
Diventa una relazione d’amore. Non un amore sessuale, romantico, né filiale, materno o paterno. È un amore amichevole, un essere compagni di viaggio. Il rapporto non è confinato da nessuna paura, verso sé o verso l’altro, e dunque assume gli aspetti del suo opposto: l’amore.
Sicché, chiamarla relazione d’aiuto è davvero poco empatico: è funzionale al mantenimento di una casta di intermediari, preti, psicologi o counselor che siano. Forse potremmo definirla relazione evolutiva cosciente, sarebbe più appropriato.
La relazione evolutiva cosciente si basa sulla meditazione e si attualizza grazie all’amore: amore e meditazione sono le risorse interiori fondamentali di ciò che chiamiamo terapia.
L’amore è il linguaggio che accomuna tutti gli umani; è addirittura interspecie. Con amore e presenza l’empatia assume un approccio olistico e diventa 3D: in grado di comprendere in un’unità l’alto, il basso e ciò che sta intorno; il conscio, l’inconscio e il superconscio; l’istinto, l’intelletto e l’intuito. Di comprendere sé, l’altro e anche tutto il resto che c’è.
Permettendo il fluire della coscienza attraverso il cuore, cioè non trattenendola nell’intelletto, la relazione d’aiuto diventa relazione evolutiva cosciente.
L’attitudine empatica si trasforma in compassione. Non nel senso di pena o disprezzo, ma nel suo significato più profondo, che unisce quel cum che com-prende a quel pathos che specchia l’altro dentro sé.
Avete conosciuto relazioni di questo tipo? Sicuramente sì, sono le amicizie, quelle vere. Ecco, questo dovrebbe avere il coraggio di essere un counselor, un massaggiatore, un terapeuta o un facilitatore: un vero amico, una vera amica.
Empatia è la capacità naturale di sentire l’altro dentro di noi, di metterci nei suoi panni e comprendere come ci sentiremmo al suo posto, ed è l’abilità a capire come l’altro percepisce noi. Amicizia è la relazione empatica per eccellenza.
(Per approfondire: “La psicologia dello Zorba” di Arshad Moscogiuri, Tecniche Nuove)