singolarità e pazzia
Articolo di Arshad Moscogiuri, 2013
In tutta la mia vita, e in particolare negli ultimi 26 anni con Osho, ho incontrato molte persone che, osservate con l'occhio dell'orbo senso comune, ondeggiano su una linea sottile tra l'essere un po' pazze e un po'... singolari. Neanche a dirlo, sono quelle con cui mi trovo meglio.
Chiaramente, per pazzia non intendo qui una patologia psichiatrica, bensì quell'apparire e quel sentirsi strani, non conformi, che da una parte può complicare la vita, dall'altra diventare una comoda identificazione.
La maggior parte di queste persone sono ricercatori spirituali, artisti, sannyasin; a volte, addirittura tutte e tre le cose assieme. Non è certo un caso: quando si inizia a lavorare su di sé, a conoscersi un po' meglio, a meditare, contemporaneamente si da anche il via allo smontaggio inesorabile dell'impalcatura delle proprie protezioni psicologiche, emotive, intellettuali. Gli usuali punti di riferimento vacillano e vengono a mancare, tutto quello che ci fa ottenere la sicurezza dell'accettazione è divelto, gli appigli si sgretolano. Progressivamente la società si allontana, e l'individuo perde i parametri di adattamento conosciuti. E' un processo di trasformazione nel quale, se si scava a fondo, la paura di impazzire fa capolino. Perchè scavando scopriamo che siamo cresciuti senza radici.
"Questa è esattamente la situazione dell’uomo. Le sue radici sono tagliate. L’uomo vive praticamente sradicato. Deve essere sradicato, per poter diventare dipendente dalla società, dalla cultura, dalla religione, dallo stato, dai genitori, da tutti. Deve dipendere. Lui stesso non ha radici. Nel momento in cui diventa consapevole di non avere radici, sente che sta impazzendo, che sta diventando matto. Sta perdendo ogni supporto (...)" (Osho, Interview on Basic Fears, 1985).
Ma la pazzia, quando non oltrepassa i confini della patologia, è normalità. I confini della pazzia sono determinati dagli usi e dai costumi di ogni società, non sono oggettivi. La paura di impazzire è il timore degli individui di non essere adatti al branco, anche nel caso in cui è il branco a essere inadeguato per gli individui. La società impone convenzioni che spesso restringono l'intelligenza umana, entro limiti tanto stretti che la società stessa teme la follia ogni volta che questi vengono travalicati.
E siccome l'essere umano è naturalmente intelligente, è destinato a scavalcarli.
La società è composta da persone uniche, irripetibili, singolari; ma il processo adattivo richiede uniformità. Il risultato è un'innaturale forzatura, in cui l'individuo non si conosce e non riesce a essere autenticamente se stesso. Aggettivi come singolare, speciale, diverso, in alcune lingue assumono l'ipocrita significato di inadeguatezza sociale.
Quando ci si inizia a riconoscere singolari, unici e irripetibili, la nostra vulnerabilità aumenta. Spesso si reagisce identificandosi ancora di più con tale singolarità, attitudine che può portare a un irrigidimento in schemi e attitudini sì diversi, ma altrettanto restrittivi per il nostro essere.
Nella ricerca interiore, accadono più fasi in cui ci si trova di fronte alla paura della pazzia o ai suoi effetti collaterali, dall'incertezza sociale all'autostima in discesa libera. Questi però non sono mali, sono sintomi. Il disagio dell'individuo di fronte alla società non significa necessariamente che ci sia qualcosa che non va nell'individuo stesso. Spesso, in società oggettivamente folli, è invece sintomo di un'intelligenza che non si rassegna a essere barattata con la falsa sicurezza.
Sono momenti delicati e importanti, in cui è fondamentale avere coscienza e cura di noi stessi, ritrovarsi con serenità, ottenere spazi di comprensione e di verifica, essere nutriti e supportati assieme ad altre persone con le quali non ci sentiamo né pazzi né singolari, bensì spontanei e naturali. Si tratta di momenti preziosi in cui è essenziale rinnovare chiarezza e direzione, dove occorre rafforzarsi per non tornare indietro, intimoriti e rassegnati, alla pazzia della normalità; momenti nei quali scegliere di continuare la crescita interiore, senza indulgere nella reazione della singolarità.